Intervista a don Andrea

Carta di identità:

Nome e cognome: Andrea Citterio

Nato a Vimercate (Mi) nel luglio del 1984

Dove hai vissuto?

Ho vissuto a Vimercate in un appartamento, al secondo piano di un grande caseggiato, ma frequentavo già la Parrocchia di Oreno, una frazione di Vimercate. Ci siamo trasferiti a Oreno dopo la seconda superiore, in una villetta molto bella con un giardino grande, nel quale ho giocato tantissimo e dove mi trovavo a “studiare” con i compagni di liceo. Ho frequentato il liceo scientifico bilingue, studiando Francese e Inglese.
In seguito ho vissuto due anni a Seveso; quattro a Venegono (ai tempi del Seminario) e poi da prete tre anni (più uno da diacono) a Solaro e sette anni a Canegrate e San Giorgio. Adesso sono a Cernusco sul Naviglio e risiedo nell’Oratorio S.A.C.E.R.

 

Come eri da piccolo?

Da piccolo giocavo tantissimo con mio papà, spessissimo sul lettone. Ero molto coccolone e dormivo molto volentieri nel lettone con i miei genitori. Ero molto affezionato alla mamma e mi piaceva scherzare: con mia sorella spesso scherzavo e a volte facevo un po’ lo scemo. Inoltre alle elementari ero piuttosto furbo.

Come era la vita prima di diventare prete?

Gli anni del Liceo sono stati tra quelli più belli della mia vita: non vedevo l’ora che finissero le vacanze per ritrovare i compagni da quanto ci si divertiva in classe. Lo studio era una parte importante, ma non era la priorità sicuramente: me la cavavo anche studiando poco, e visto che mia mamma voleva un certo risultato (la media del 7) un po’ studiavo … però riuscivo comunque a dedicare tanto tempo allo sport e soprattutto all’Oratorio.

 

Aneddoti di quel periodo?

Una situazione divertente (tra davvero tante altre) è che avevamo il prof. di francese Carlo Cifronti, che divenne poi sindaco di Brugherio, che per attirarci usava anche molto il dialetto lombardo (con molta ironia), così io e Michele, i due più casinari della classe, lo accoglievamo con frasi scritte alla lavagna in dialetto e ci riferivamo a lui in dialetto. Lui ci rispondeva in dialetto e ci diceva sempre: mi raccomando ragazzi “fate gli indiani”, siate un po’ furbi e ve la caverete sempre! Noi questa cosa la usavamo per difenderci davanti agli altri prof quando combinavamo altre cose. Ho sempre avuto una condotta piuttosto bassa.

Cosa sognavi di diventare da grande?

Di diventare un politico, in particolare di livello internazionale. Avevo già individuato l’università che era a Genova, la facoltà di Rapporti Internazionali.
Sono sempre stato appassionato di politica. Era un argomento che in classe usciva davvero tanto: eravamo schierati in due fazioni, piuttosto estreme (da buoni adolescenti!). Mi ricordo che avevo individuato questa università perché il mio sogno era quello di lavorare alla Nato o all’Onu, comunque a livello diplomatico.

 

Quando invece hai sentito la chiamata?

Non posso dire di aver sentito la chiamata però, diciamo che inconsciamente è merito, o colpa – come dico scherzando – dell’oratorio. Per me l’oratorio era al primo posto e non lo scardinava niente, né la compagnia del liceo, né lo studio, neanche lo sport che facevo volentieri (atletica e calcio). Però l’oratorio era al primo posto, in particolare l’animazione con i bimbi: mi divertivo tantissimo a fare lo scemo con i bambini e a farli morire dal ridere. Quindi, inconsciamente, direi questo.
Consapevolmente, invece, lo attribuirei al grandissimo Giovanni Paolo II e alle due giornate mondiali della gioventù che ho vissuto alla fine della seconda e della quarta superiore: quella di Toronto mi ha proprio ribaltato dentro.

 

Perché cosa è successo?

Diciamo che tutto è partito dal mio parroco di casa (don Luigi Brambilla, un santo!), che aveva, direi, un debole molto positivo per me: mi dava tanta responsabilità in oratorio. Ad esempio in terza superiore ero il responsabile degli animatori e avevamo fatto veramente delle estati bellissime. Eravamo un gruppo veramente compatto di una cinquantina, e mi proponeva sempre di pregare cosa che io facevo la sera a casa e di questo ringrazio un sacco i miei e mia sorella: non abbiamo mai passato una serata senza pregare prima di dormire. Questo penso abbia seminato qualcosa anche se a volte per me era un po’ superfluo, però don Luigi mi ricordo che nelle confessioni che facevo, tre o quattro volte all’anno con lui, mi invitava sempre a fare la visita al Santissimo, così la chiamava lui (un gesto proprio bello!). Mi invitava cioè a passare in chiesa e a stare lì qualche minuto davanti all’Altare. E c’è stato un periodo, in quarta superiore, in cui mentre facevo questa cosa volavano i minuti e la cosa mi ha un po’ preoccupato perché io non ero un tipo silenzioso, meditativo e riflessivo. Quindi questa cosa mi ha un po’ mandato in crisi: ho avuto anche dei momenti di pianto. Alla mia amicissima Gaia avevo parlato di questa cosa e lei mi diceva “parlane con il don”, ma io non volevo parlarne con il don, perché mi avrebbe risposto “vai in seminario” e io non avevo in mente quello. Poi sono andato alla GMG di Toronto, con Giovanni Paolo II, che aveva un carisma secondo me veramente incredibile. Lui mi ha conquistato tantissimo fin da ragazzino e quindi mi ha dato il coraggio di tornare a casa e parlare con il don di questo e poi da lì tutto è nato il tutto.

Ne ho parlato quindi con don Luigi che era un parroco stile don Gino. Forse anche per questo mi sono trovato molto bene con don Gino (questo non l’ho mai detto neanche a lui, però adesso che vado via, posso dirlo). Quando sono arrivato qui ho rivisto don Luigi in don Gino, nel senso che ha un’umiltà che spiazza, molto diverso da me come carattere, però io sapevo che di un tipo così potevo fidarmi, che era molto tenero e ho voluto (e voglio) un sacco di bene a don Gino.

Come dicevo, Don Luigi Brambilla mi aveva un po’ furbescamente portato a parlare con quello che era il rettore del seminario (don Marco Oneta), ma io non lo sapevo. Quello che mi ha raccontato lui è come se mi avesse fornito la risposta che cercavo.
Quindi durante la quinta superiore ho iniziato a fare degli incontri in seminario una volta al mese. Si chiamava ‘Percorso non residenti’: esiste ancora oggi, chissà che qualche giovane canegratese lo intraprenda. Lo frequentavo di nascosto, perché la regola era di non dirlo a nessuno per restare sereno, ad eccezione dei miei, di mia sorella, di Gaia che chiaramente lo sapeva, e di don Luigi. È stato così fino alla fine della quinta superiore: mi inventavo un sacco di bugie per sparire un sabato e una domenica al mese, che per me voleva dire tanto perché il sabato sera in compagnia non c’ero, la domenica mattina non c’ero a Messa con i bambini (noi animatori facevamo un servizio a messa di accompagnare i bambini) e la domenica pomeriggio non c’ero a giocare in oratorio.
Però l’unica che lo ha scoperto e ha capito è stata la suora dell’oratorio, suor Mariagrazia.

 

Dopo l’ordinazione cosa è successo?

Sono stato mandato a Solaro, già prima da diacono perché al tempo c’era questo schema per cui facevi l’ultimo anno di seminario e i primi tre da prete in una parrocchia e poi venivi spostato. Quindi a Solaro ho lottato con le “unghie” per restare, poiché non sapevo, ma lo schema era “rigido”, per cui mi hanno trasferito a Canegrate e S.Giorgio.
A Solaro sono stati tre anni in totale discesa nel senso che non c’è stato alcun ostacolo: sono stati anni incredibili nel senso letterale del termine, con due parroci giovani, uno di cinquantaquattro, l’altro di cinquantacinque anni e io. Eravamo noi tre. Abbiamo lavorato veramente molto bene, ho trovato una comunità molto accogliente, molto fresca, molto semplice: anche questo mi ha permesso di lavorare quasi senza pensieri.

 

Ma in cosa consiste il lavoro di un prete?

Io ho iniziato a fare il prete a Solaro e a Villaggio Brollo, la stessa situazione di Canegrate e San Giorgio: c’erano due parroci e un’unità pastorale e io seguivo gli oratori e la pastorale giovanile. Direi che la prima cosa era quella di curare i cammini formativi lì, un po’ come qui, coordinavo l’iniziazione cristiana dei ragazzi fino ai giovani. Trovavo dei gruppi molto forti e dei gruppi invece un po’ deboli però, ma veramente in poco tempo, c’è stata un’aggregazione che è stata per me bella, cioè non ho dovuto neanche pensarla. Poi io ero prete novello, quindi certamente si pensava meno che quando si hanno dieci anni di Messa come adesso, però le cose accadevano veramente come l’acqua in un fiume che scorre. Quindi c’erano tanti ragazzi (certo non il numero di Canegrate e San Giorgio: un dono inaspettato!), tanta risposta, tanta serenità. Io curavo i cammini formativi e  la domenica pomeriggio in oratorio c’erano i catechismi.

Poi ho iniziato subito da prete novello a insegnare al liceo scientifico (fino all’anno scorso): dieci anni di liceo scientifico, e io ogni volta che varcavo il liceo scientifico, era come rientrare al mio liceo. Visto che i miei anni del liceo sono stati fantastici, guardando i ragazzi coglievo immediatamente alcune dinamiche che allora pensavo i professori non cogliessero. Ora a Cernusco non insegno più nel liceo scientifico, ma in altre scuole superiori (alcune ore in un Liceo Linguistico e Scienze Umane e altre ore in un Professionale).

 

Hai anche incontrato qualche difficoltà nella tua vita?

Sembra una cosa appunto incredibile però a Solaro non ho incontrato difficoltà particolari.
A Canegrate, anche questo mi sembra giusto raccontarlo anche se tanti lo sanno, il primo anno è stato per me terribile: l’eredità che raccoglievo era veramente pesante con tratti davvero diseducativi secondo me: ero stato un po’ imboccato dai superiori, anche se non a dovere. Sostituivo due don: a San Giorgio c’era una situazione delicata, perché il sacerdote aveva lasciato il ministero, però ho trovato un oratorio sereno e veramente curato dal punto di vista spirituale. A Canegrate, invece, negli ultimi anni per vari motivi la situazione in oratorio era – direi – stramba. Per me è stato molto difficile, perché alcuni atteggiamenti, anche verso di me, erano davvero pesanti; quindi ad aprile avevo chiesto con forza al don di prendere una posizione rispetto al lavoro che stavo facendo per ridare normalità all’Oratorio, oppure che potessi far intervenire qualcuno dei nostri superiori. Quindi venne Mons. Delpini che al tempo era vicario generale a fare un’assemblea nel cinema dell’oratorio e quello posso dire che dal punto di vista umano mi ha salvato.

Devo dire però che già dopo i primi mesi ho potuto meravigliarmi della freschezza dei preadolescenti e degli adolescenti che si affacciavano come protagonisti dell’Oratorio e che si sono lasciati coinvolgere con entusiasmo e impegno nella proposta educativa, in una misura davvero inaspettata. Inoltre, dentro l’enorme fatica del primo anno è  brillata Rita, proprio come un astro: si è fatta avanti con un desiderio prezioso, quello della consacrazione religiosa e per me è stato un segno di speranza e di gioia purissima.

 

Tu hai appunto queste amicizie altolocate, come sono nate?

In effetti ho due rapporti molto forti con il nostro Vescovo e con il Cardinale Rodriguez Maradiaga. Quello con Delpini è nato da una stima enorme che in Seminario io e alcuni compagni nutrivamo per lui, nostro Rettore. Don Mario (che anche ora è per noi “don”, pur da Arcivescovo) aveva un modo di fare il rettore molto autorevole, a tratti pareva (solo pareva) anche autoritario in alcune sortite. Però noi più giovani della classe abbiamo molto apprezzato questa figura ferma ma capacissima di scherzare e di giocare anche con noi, di scendere veramente al nostro livello pur sottolineando sempre che “lui era il sovrano e noi i sudditi”: questo era il suo genere letterario. Ci abbiamo messo poco a capire che appunto era un genere letterario. Quando è stato nominato Vescovo Ausiliare (2007), io e un gruppo di altri quattro siamo stati protagonisti di un gesto ai limiti delle regole del Duomo (forse oltre), perché alla fine della sua consacrazione episcopale, che è una delle celebrazioni più solenni della Chiesa Cattolica, siamo riusciti a srotolare uno striscione in Duomo salendo sulle balaustre, dove a bombolette c’era scritto “I sudditi del tuo rettorato esultano per il tuo episcopato” (uno striscione frutto di un lungo lavoro clandestino fatto di sera in Seminario). Don Mario ovviamente ci ha richiamato insultandoci, dicendoci che eravamo degli insolenti e degli adolescenti, anche se avevamo 23 anni. Però lo striscione in verità l’ha molto apprezzato.

Diciamo che l’ho sempre seguito a distanza poi, perché non era più “nessuno” per me: non era un superiore, non era il mio parroco, finché poi è diventato Vicario generale e quindi è venuto qui a Canegrate.

Per me è stato determinante quel suo intervento: non so se sarei rimasto altrimenti; infatti avevo anche pensato di “mollare”. Adesso anche da Vescovo, ha grandi abilità. Innanzitutto conosce tutti i preti (saremo in 1800) e ci conosce tutti per nome grazie ai suoi trascorsi: è sempre stato in seminario a insegnare come professore e poi perché gira la diocesi, batte proprio il terreno incontrando, conoscendo, vedendo le persone e questo è bellissimo per un Vescovo. L’amicizia quindi è nata così, anche se amicizia è un termine che lui non condividerebbe e forse non è adatto per il rapporto con don Mario. Però questo legame è fortissimo, veramente di grande bene, di grande comunione spirituale, ed è nato in seminario. Un legame forte con un superiore è una cosa che oggi sembra strana ma è un dono.

La conoscenza del è stato invece un caso (una provvidenza): durante una Messa a Bollate, a Cascina del Sole durante il 5° anno di seminario, è venuto questo cardinale che io conoscevo di nome perché era un papabile al conclave dei 2005 e dei 2007, dopo la morte di San Giovanni Paolo II. Mi ricordo che venne a dire una Messa a Cascina del Sole semplicemente perché lui era salesiano e in quei giorni era ad Arese ospite, dove il sabato aveva ordinato i sacerdoti italiani salesiani e la domenica aveva chiesto di andare a dire Messa in una comunità. Un salesiano di lì faceva servizio a Cascina del Sole e lo ha portato. Dopo Messa abbiamo avuto occasione di cenare insieme solo io e lui perché non era prevista la cena: sia il parroco sia don Giacino che lo accompagnava non potevano stare. Quindi quella sera siamo rimasti lì noi due per 2 ore: non solo mi sono messo a chiedergli chissà che, però lui mi ha raccontato tanto di lui e io tanto di me, e mi ha chiesto l’indirizzo mail, iniziando uno scambio di mail dal 2007 al 2010 abbastanza frequenti nelle quali mi guidava da lontano in seminario, anche su degli scontri che ho avuto con il rettore successivo a don Mario. Insomma, nelle difficoltà lui per me è stato un padre spirituale a distanza. Poi nel 2010 mi ha invitato in Vaticano alla Messa per l’anno sacerdotale che Benedetto XVI aveva proclamato e da lì tutti gli anni, almeno una volta ci siamo incontrati. A Solaro dove ha fatto due volte le cresime; a San Giorgio e a Canegrate ne ha celebrate quattro o cinque e io sono stato tre volte in Honduras a casa sua. Questa è quindi un’amicizia molto forte, anche perché lui non è un superiore: qui posso proprio dire che vivo una vera amicizia.

 

Amicizia proprio o guida spirituale?

No, diciamo “guida” soprattutto per la sua storia e per il suo coraggio che richiamano molto Giovanni Paolo II. Questo è un tratto in comune che lui stesso si riconosce e io gli riconosco tanto, quindi forse la “presa” che ha avuto su di me è anche dovuta a questo. Però si tratta di una forte amicizia, nel senso che per me a volte è quasi imbarazzante perché lui mi racconta molto di sé e anche di quello che fa.

 

Hai incontrato qualche difficoltà?

Ho avuto difficoltà per la mia testardaggine, per il mio carattere diciamo ‘reminiscenza del liceo’ dove avevo una condotta bassa. Siccome poi in seminario le occasioni per fare compagnia e baraonda ci sono, soprattutto con quelli che sono tuoi coetanei, i problemi non sono mancati. In seminario il tempo non manca; o meglio, il pomeriggio sarebbe dedicato tutto allo studio, ma se uno non usa tutto il pomeriggio resta tempo. Don Mario era un combattente, il rettore successivo don Peppino con il quale ho avuto la grazia di riconciliarmi veramente in maniera bella quattro o cinque anni fa, aveva invece un carattere molto più bonario e molto più conciliante, in questo purtroppo io ci ho navigato, anche esagerando, quindi poi sono arrivati momenti di scontri e di richiamo. Il seminario per me è stato molto, molto bello, non direi che ci sono state delle difficoltà, tranne nei momenti in cui io ho esagerato.

 

Invece hai detto che qui a Canegrate a un certo punto volevi andare via, hai chiesto il trasferimento?

No non lo ho chiesto, l’ho detto a don Gino un po’ per pungere e attirare l’attenzione su una situazione molto pesante: don Gino che ha una fede più grande della mia e non voleva pubblicamente scoperchiare alcune cose, per cui mi chiedeva di resistere: “vedrai che i giovani si affezioneranno”. Aveva ragione, e quanto affetto! Però io facevo molta fatica, perché alcuni vivevano l’oratorio con uno stile non oratoriano e quindi faticavano a comprendere il lavoro che facevo: pensavano fosse solo una questione di cambiamento di prete. In realtà purtroppo senza nessun mio vanto, io facevo quello che don Mario Delpini mi suggeriva a distanza di fare, cioè le cose che erano dell’oratorio diocesano, quella proposta educativa sana, seria in cui ci si forma e si cresce per diventare adulti. Quindi in quel momento avevo bisogno che qualcuno in qualche modo dicesse alla gente che quello che facevo non era la mia idea, ma era quello che la Diocesi desiderava e quindi quando don Mario è venuto a dire queste cose in maniera forte (davvero forte) e ha avuto la giusta intuizione di istituire il consiglio dell’oratorio questo mi ha permesso poi di lavorare e alla fine sono stati sei anni molto intensi di lavoro educativo e formativo.

Chi si occupa delle tue banalità della vita quotidiana?

Io da quando sono diventato prete ho sempre vissuto da solo; faccio la spesa ogni settimana, solitamente il lunedì, mi faccio ovviamente anche da mangiare; mi faccio aiutare da qualcuno in casa per le pulizie e mi appoggio a casa dei miei per la biancheria.

 

Che cosa ti piace di più della tua vita da prete?

L’oratorio.

 

Cosa ti piace di meno della tua vita da prete?

Forse il non avere abbastanza pazienza per gestire le dinamiche tra adulti.

 

Che cosa rimpiangi di più della tua vita laica?

Quel che ricordo con gioia e che rifarei, senza un rimpianto vero e proprio, è fare pesantemente lo scemo come ai tempi del liceo. Capita in parte nei ritrovi coi compagni (soprattutto nelle serate only men).

 

Invece a livello di amicizia riesci comunque a creare delle amicizie anche adesso che sei prete?

Sì io ringrazio tantissimo Dio per l’amicizia con Gaia alle superiori: è stata un’amicizia nella quale nessuno credeva, neanche io, perché pensavano tutti fossimo innamorati l’uno dell’altra, ma non lo siamo mai stati. Io ho imparato cosa vuol dire vivere un’amicizia con Gaia, da Gaia. Quella con Gaia è un’amicizia che negli anni si è un po’ allentata, anche se è stata così intensa che basta ribeccarsi perché scocchi una sintonia e un affetto molto forte. Auguri a lei che proprio pochi giorni fa si è sposata.

Poi ho avuto tante altre amicizie sia in paese che poi durante il seminario.

Direi che adesso l’amicizia è innanzitutto con tre amici preti: Oscar, Giorgio e Gabriele, che sono tre compagni di seminario e poi ci sono delle amicizie del mio paese, di casa che sono rimaste. Poi ci sono state altre figure, sia amici che amiche e direi che sono presenti in maniera abbastanza diffusa durante l’anno soprattutto nella comunicazione, ma poi ci si vede un po’ meno, anche se con qualcuno però si riesce a vedersi anche tre o quattro volte l’anno. Però per come vivo io la vita da prete forse mi ritaglio troppo poco tempo per questo.

Nelle parrocchie io, scherzando, dico sempre ai miei educatori che il termine “amico” ha qualcosa di differente, perché penso che sia giusto che il prete sia libero, ma da prete, con i suoi ragazzi. Quindi è giusto che uno si rapporti con quelli della sua età in un modo e con quelli più piccoli sappia comunque mettere dei filtri, o meglio, adattare il modo di porsi.
È segno di maturità.

 

Cosa significa per te essere prete?

Essere prete significa avere l’enorme grazia di avere avuto il coraggio di scegliere di seguire Gesù, perché a ripensarci per l’età che avevo e come ero è stata veramente una Grazia, quindi questa è la prima cosa. La seconda cosa significa vedere come altri, soprattutto giovani, allaccino amicizie con Gesù, vedere questo è proprio bello.

 

Il tuo sogno di felicità?

La mia felicità è avere la grazia nel futuro di restare fedele e, come mi dice sempre il Cardinale, mai perdere la gioia.

Quale è il tuo libro preferito?

Dipende dai generi, devo ammettere che da quando sono a Canegrate e San Giorgio leggo quasi zero e questo è un peccato vero. Un libro che mi ha colpito molto è stato il romanzo di D’Avenia: “Ciò che inferno non è”, che nasce da un incontro con Pugliesi.

Un aspetto positivo del tuo carattere?

Determinazione

Un aspetto negativo?

Impazienza

Un dono di natura che hai?

Di essere tenace nelle difficoltà

Un dono di natura che vorresti avere?

Un po’ più di calore umano in certe situazioni.

Il tuo piatto preferito?

Pasta al pesto.

La tua bevanda preferita?

Acqua o the al limone.

Che cosa apprezzi di più nelle persone?

Sorriso e generosità.

Che cosa apprezzi di meno nelle persone?

L’invidia che c’è a volte tra persone e la difficoltà a scegliere.

Un vizio, un’abitudine in cui ogni tanto inciampi?

Una banale è mangiare troppe caramelle, una più seria le parolacce.

Il tuo motto?

C’è un motto che è della nostra classe d’ordinazione che tra l’altro è risuonato proprio oggi (domenica 15 settembre ndr) nelle letture che è: ‘tenendo lo sguardo fisso su Gesù’.

Il mio motto invece è: stai contento!.

 

Cosa vorresti aggiungere a questa intervista?

Direi che non si può conoscere me senza dire una cosa sulla mia famiglia, perché è stata ed è determinante per me, su Claudia che ha quattro anni in meno di me, su mio papà Aldo e su mia mamma Carla, che sono un punto fondamentale, c’è un rapporto veramente bello anche nelle difficoltà e anche nelle differenze di veduta, sono una certezza insomma.

E poi un grandissimo grazie, perché questi anni sono stati veramente intensi: faccio fatica a calendarizzare ciò che ho vissuto, ma forse non è quello il modo giusto e migliore e più profondo per ricordare le cose. Chiaramente c’è un legame particolare qui, per quel che si è vissuto in tutti questi anni che sono stati tanti e anche per la grande difficoltà vissuta con la perdita di Federica, che portiamo nel cuore e che per me, e spero per i giovani, non resti solo ricordo, ma sia motivo per camminare con ancora maggior passione e amore.

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