Intervista a don Marcello

Dove ha vissuto?

Ho vissuto nella frazione di S. Carlo di Seregno. La mia famiglia era composta da mio papà, originario di Seregno, e da mia mamma, che proveniva da Bovolenta in provincia di Padova. Papà era impiegato e la mamma operaia. Sono il maggiore di tre figli: ho un fratello e una sorella che si sono sposati e ora ho anche dei nipoti.

Come era da piccolo?

Da piccolo ero un po’ irrequieto e vivace, perché dei tre fratelli ero quello che le ha prese di più degli altri da mia mamma: ero un po’ dispettoso.

Come era la sua vita prima di diventare Prete?

A casa ho trascorso solo la mia fanciullezza, fino agli 11 anni. Sono cresciuto all’ombra del campanile: andavo a scuola e facevo il chierichetto. Avevo i miei amici e già allora mi piaceva giocare a dire la messa e invitavo i miei compagni a partecipare.

Quando ha sentito di voler dedicare la sua vita a Gesù?

Provavo ammirazione per un giovane che era sempre in mezzo ai ragazzi, ci seguiva, ci aiutava … era simpatico, per cui era piacevole stare in sua compagnia. Ai tempi lui era già in seminario per diventare prete e pensavo dentro di me che mi sarebbe piaciuto diventare come lui. Ho deciso quindi di entrare in seminario nonostante le resistenze di mia madre: vi ho trascorso 13 anni e tornavo a casa solo per le vacanze. Ho fatto lì le scuole medie, il liceo classico e poi ho studiato teologia. Sono stato in tre seminari diversi, a Seveso, Saronno e Venegono Inferiore.

È stato tutto rose e fiori, oppure ha incontrato delle difficoltà?

Durante l’adolescenza pur essendo in seminario ho avuto dei momenti in cui ho messo un po’ in discussione la mia fede e mi sono fatto delle domande sulle mie scelte. Poi pian pianino grazie al confronto con i miei superiori, alla lettura e alle riflessione sono divenuto consapevole che prima di diventare prete bisogna essere cristiani convinti.

Da quando è stato ordinato prete, quali sono stati i suoi incarichi?

Sono stato ordinato prete nel 1976, per poi essere destinato a Ferno come vicario, in mezzo ai ragazzi. Dove sono rimasto per 11anni Poi altri 9 anni sempre in mezzo ai ragazzi come vicario a Monza. Ho insegnato nelle scuole medie per 21 anni, per cui ho seguito i ragazzi alla mattina a scuola e al pomeriggio all’oratorio. Una volta gli oratori erano sempre pieni e si aveva un contatto costante con tutti i ragazzi del paese. D’estate andavamo noi in campeggio, ma restavamo nello stesso posto al massimo due anni, dopo si cambiava. Ai ragazzi piaceva cambiare spesso destinazione, piaceva molto la novità: si annoiavano a frequentare sempre lo stesso posto. Le prime volte abbiamo fatto campeggio dalle parti del monte Rosa a San Jean, in valle d’Ayas, poi in val Biandino una valle laterale alla Valsassina e infine a Chiareggio, vicino a Chiesa Valmalenco sotto il monte Disgrazia. Non porterei mai ragazzi al mare: la montagna è maestra di vita, perché si prova sacrificio e solidarietà, ci si aiuta, si porta lo zaino di chi è stanco, si condivide la borraccia e si va al passo di chi è più lento. C’è la soddisfazione della meta che si raggiunge dopo la fatica.

E quando è diventato Parroco?

Nel 1996 sono diventato parroco.
Ho fatto il parroco in tre posti diversi: prima a Nova milanese per otto anni. Lì non c’era il vicario, per cui facevo tutto: il prete in oratorio e il parroco. Poi sono stato spostato a Lacchiarella, un paese rurale a sud della Diocesi di Milano, dove sono rimasto per 7 anni e mezzo. Mentre ero a Lacchiarella ho fatto anche il decano di Melegnano. Poi Monsignor Delpini mi ha mandato a Milano alla parrocchia di Santa Maria delle Grazie del Naviglio, nella zona della movida milanese, e a San Cristoforo.

Come era essere parroco in una metropoli?

Santa Maria delle Grazie del Naviglio è un posto dove tutti gli schemi della classica parrocchia saltano: lì non c’erano tradizioni e abitudini; non c’erano le caratteristiche della tradizionale parrocchia di paese, come ci sono qui a Canegrate. In quella parrocchia bisognava inventare tutto. È una parrocchia dove la vita scorre velocemente, dove gli anziani muoiono e sono soli al loro funerale, dove i residenti cambiano casa velocemente. Il tessuto urbano si trasforma in continuazione: le case si trasformano in uffici, in ristoranti e bar. Ci sono studenti che arrivano e studenti che vanno; alcuni poi trovano lavoro e si stabiliscono li.
La cosa bella che ci siamo inventati in questo particolare contesto era quella della “Chiesa aperta e illuminata di notte”: il sabato la chiesa restava aperta dalle 21 alle 24 con le porte spalancate e si confessava: i giovani, e non solo, entravano a confessarsi e trovavano dei sacerdoti pronti ad ascoltarli. Si dava un segno di speranza, di fiducia e di ascolto a tutte quelle persone che vengono a Milano per studiare, lavorare, vivere e divertirsi nelle zone del Naviglio. È stata una bellissima iniziativa che prosegue tuttora.

Qual è la cosa che le piaceva di più dei essere parroco a Milano?

Avevo due coadiutori vicari moto bravi e intelligenti. Uno insegnava a scuola, l’altro seguiva l’oratorio. Mangiavano spesso insieme: era un momento bellissimo di confronto. È stato molto bello trovare qualcuno con cui confrontarsi specialmente durante il pranzo della domenica. Nella parrocchia di Milano mi è piaciuto molto il fatto che non c’era il pettegolezzo tipico dei paesi. Eravamo liberi di fare cose e di parlare perché la gente non mormorava inutilmente. C’era libertà di sperimentare perché nessuno ha mai detto” si è sempre fatto così”. Si provava. Se andava bene, si portava avanti l’iniziativa, se no si interrompeva.
In un contesto sempre più secolarizzato, si può procedere solo studiando e sperimentando vie nuove per attirare le persone: le proposte andavano all’essenziale perché le persone cercavano l’essenziale. La fede lì è molto ragionata: è necessario argomentare e non bastano le esortazioni verbali.
C’è bisogno di una fede ragionevole, motivata, non più data per scontata, ma supportata dalla ragione: la ragione porta a capire che la fede non è qualcosa di assurdo, che ciò che stai facendo non è assurdo; ti porta a capire che il vangelo è vero solo vivendolo, che la Verità è un bene per la nostra vita.

Cosa ha pensato quando le hanno detto che sarebbe stato trasferito a Canegrate?

Canegrate è completamente diversa da Milano. Sono rimasto molto colpito dall’accoglienza, dai sorrisi dalla disponibilità delle persone. Molti fanno molto per la comunità: il volontariato a Canegrate è al massimo rispetto a Milano dove è al lumicino. Sono rimasto sorpreso e frastornato positivamente dall’accoglienza: ora devo trovare le misure. Io però non sono qui a fare un’azione sociale: questo spetta ad altri. Le mie intenzioni sono diverse perché sono un prete e il mio scopo è quello di parlare di Dio, di far vedere “la lepre”, se no uno si stanca di correre. Non deve essere un cristianesimo di dovere, ma di piacere: le persone devono capire le ragioni per cui si corre. Ma la secolarizzazione che ha già investito Milano arriverà anche qui a Canegrate e la secolarizzazione crea chiese vuote, oratori vuoti e un cristianesimo d’abitudine: si battezzano i figli perché si è sempre fatto così, ma poi si sparisce dalla vita di parrocchia, lo si fa solo per abitudine e si perdono le tradizioni.

Grazie don Marcello per queste riflessioni.

 

 

“Carta d’identità” di don Marcello:

Nome e Cognome: Marcello Barlassina
Nato a Seregno (prov. MB) nell’agosto del 1952

Cosa è per te la felicità?

È voler bene ed esser voluti bene, ricambiati nell’amore, questo è il massimo della felicità.

Qual è il tuo libro preferito di sempre, al di là delle sacre scritture?

Il cavallo rosso di Eugenio Corti. Mi ha catturato, ma è uno dei tanti e invito a leggerlo.

Un aspetto positivo del tuo carattere?

Tendenzialmente sono contento e sereno, non drammatizzo mai.

Un aspetto negativo del tuo carattere?

Qualche volta perdo la pazienza e sono impulsivo.

Il tuo piatto preferito?

Risotto ai funghi

La tua bevanda preferita?

Il chinotto

Cosa apprezzi di più nelle persone?

La lealtà e la sincerità

Cosa apprezzi di meno nelle persone?

Quando dicono una cosa ma ne pensano un’altra.

Un vizio, un’abitudine a cui non puoi proprio rinunciare?

Vedere i dibattiti politici: alla sera prima o dopo cena vedo volentieri in tv i confronti tra le diverse opinioni e mi faccio un’idea.

Il tuo motto?

In alto i cuori!

Cosa vorresti aggiungere a questa intervista?

La festa di accoglienza di settembre è stata incoraggiante, un biglietto da visita che mi ha dato grande gioia e respiro. Concludo dicendo

“Sono a casa”!