Intervista a don Nicola

Nome e cognome: Don Nicola Petrone

Nato nel Novembre del 1984, a Gallarate (Va)

 

Dove hai vissuto?

A Gallarate, nella frazione di Crenna, un luogo splendido. Dal centro città ci siamo trasferiti lì, in una villetta con un bel giardino, dove potevamo giocare molto. Era poco prima che nascesse mia sorella: la casa dove stavamo prima era diventata piccola dal momento che eravamo cinque figli, Alessandro, Michele, Francesco, io e Anna.

Il rapporto con i fratelli è sereno-variabile, come accade spesso tra fratelli: voglio molto bene a loro, ma non sempre ci siamo capiti; fortunatamente adesso che siamo cresciuti va un po’ meglio. Mamma Teresa e papà Tullio sono due persone semplici ed entrambi lavoravano in ospedale: mio papà era responsabile del personale, mamma invece era medico.

Io vengo da una famiglia particolare: la mia famiglia non ha mai frequentato l’ambiente della Chiesa, soprattutto dell’oratorio, forse perché, essendo 5 figli, eravamo già un piccolo oratorio, o forse perché mio papà non si è detto mai molto credente. Io ho vissuto i sacramenti perché frequentavo la scuola elementare Betlem: rimanevamo lì, tutti e 5, dal mattino alla sera, perché i miei genitori lavoravano molto.

 

Come eri da piccolo? Quali erano le tue passioni?

Alle elementari mi piaceva sognare, immaginare, giocare inventando storie e mondi. Da giovane studiavo musica, in particolare batteria e ho avuto un grande maestro con cui ho suonato in alcuni gruppi e ho fatto tante esperienze, qualcuna anche interessante: la musica è una passione che mette il ritmo giusto al cuore e armonia alla vita.

Giocavo anche a pallavolo, ma quando c’è stato da scegliere tra musica e sport, ho scelto la musica.

In seguito ci sono state altre passioni, come incontrare le persone e i popoli, conoscerne le culture e i luoghi dove vivono. Durante il seminario, infatti, ho vissuto all’estero e ho studiato le lingue: in Scozia ad esempio ho fatto esperienza pastorale, stravolgendo un po’ la mia vita rispetto ai tempi del liceo, dove avevo voti bassi nelle lingue straniere. Adesso, invece, mi piace studiarle. Lì in Gran Bretagna, nei pressi di Glasgow, ho conosciuto una Chiesa di minoranza, ma ho trovato preti che sono diventati amici grandissimi: sono venuti persino alla mia ordinazione e spesso ci troviamo quando loro vengono in Italia. Per me sono una testimonianza significativa di un mondo dove non esistono gli oratori ed essere credenti non è un’esperienza scontata.

Riscontro la stessa cosa in Terra Santa, un altro luogo per cui nutro una forte passione: lì i cristiani sono una minoranza tra tutti i fedeli che si rivolgono a Dio. Però è un segno di così grande speranza, che mi appassiona. Anche lì ho degli amici consacrati e vi ho perfino portato i giovani di Solaro per un’esperienza di volontariato. Mi piace andare lì a pregare e a fare gli esercizi spirituali.

 

Come era la vita prima di diventare prete?

Ho fatto tutti gli studi a Gallarate, all’ITC Gadda e poi sono andato all’Università, per studiare economia. Sono entrato in seminario nel 2006, durante la tesi della triennale.

 

Quando invece hai sentito di voler dedicare tutta la tua vita a Gesù?

Prima c’è stato l’incontro con l’oratorio, nell’estate del 2000, l’anno del Giubileo. È avvenuto così per caso, passando in motorino fuori dall’oratorio, cercando di fuggire anche da una compagnia non proprio bella da frequentare. Lì fuori ho incontrato quasi per caso un prete. Non ricordo bene i particolari, ma abbiamo iniziato a parlare: era don Massimo Pirovano. All’inizio non lo sapevo neppure che era un prete: era giovane e aveva il colletto, ma io non avevo mai visto un prete giovane. Per me, cresciuto nelle scuole delle suore, il prete era una persona anziana. Ne sono rimasto sorpreso.

Mi ha chiesto se potevo dargli una mano con i ragazzi e da quel momento il mio mondo si è ribaltato: ho conosciuto un nuovo modo di fare amicizie, un universo di relazioni che magari erano un po’ più serene di quelle al di fuori dell’oratorio; un mondo basato sul volontariato e sul divertimento, su serate trascorse a chiacchierare, a suonare la chitarra, arricchito con i campeggi. Questo mondo mi ha tolto dalla strada e mi ha umanizzato. Questo è stato il primo incontro, che poi ho saputo riconoscere essere un incontro con Gesù, con la comunità cristiana. Don Massimo è stato un po’ un secondo papà per me, perché è stato un grande educatore e mi ha cresciuto.

Questo incontro con l’oratorio mi ha cambiato in positivo, perché sono migliorato anche a scuola.

Nella scelta dell’università, non ho però scelto puntando in Alto, perché non avevo ancora le idee chiare. Sapevo che dentro di me c’erano desideri e sogni, dovuti a questa vita in oratorio che pulsava. Avevo pensato a medicina in modo da poter fare qualcosa per gli altri, ma essendo stata un’estate un po’ “frivola”, i miei compagni mi hanno convinto ad andare insieme a loro a studiare economia.

Per cui ho scelto puntando verso il basso, rimandando una risposta più grande.

Poi mi sono innamorato di una persona splendida, un angelo, una ragazza tenace, dolce bella, ma anche amante del suo oratorio e seria nello studio: mi ha dato un esempio grande. Questo è stato un altro incontro con Gesù, perché negli anni in cui siamo stati insieme, in questa relazione che puntava in Alto, nella serietà di un rapporto che metteva Gesù al centro della relazione, anche lei mi ha aiutato a scoprirmi nella mia fede.

Un altro momento significativo nel mio percorso è stato durante gli esercizi spirituali proposti e imposti dal Don, quando mi sono innamorato di alcune parole del vangelo: Giovanni 21, 15-19. Sono parole che, pregando, mano a mano ho sentito mie forse perché stavo vivendo un periodo ricco di domande, di tanti dubbi sul futuro che comprendevano quella voglia di essere serio con lei, la mia fidanzata. Il brano del Vangelo riferisce del momento in cui Gesù risorto dice a Pietro: “Simone Giovanni mi ami tu più di tutte queste persone?”. E glielo chiede per tre volte. Ogni volta che lo leggevo era come se il Signore avesse smesso di dire Simone e avesse detto “Nicola, mi vuoi bene?”. Questa cosa mi ha preso tutto il cuore e sono entrato in seminario. Era il settembre del 2006.

Lì sono rimasto 7 anni: sono diventato diacono nel settembre del 2012 nella festa dei Santi Arcangeli e subito dopo, il 3 ottobre, sono stato mandato a Solaro e Villaggio Brollo, sostituendo don Andrea, dove mi sono fermato 7 anni.

Sono diventato prete l’8 giugno 2013; ordinato in Duomo, ho celebrato la prima Messa a Crenna e poi a Solaro, Villaggio Brollo.

E ora sono arrivato qui.

 

E i tuoi parenti, i genitori, i fratelli come hanno accolto questa tua scelta?

Hanno avuto reazioni molto diverse: la mia famiglia ci ha messo un po’ ad accettarlo. Anche se mi sono stati accanto sempre, mia mamma ha sempre un po’ sperato, prima che venissi consacrato, che cambiassi idea; mio papà, invece, era turbato e scioccato, perché la mia amicizia con Dio era un mondo molto distante dalla sua vita che ha sempre professato essere atea. I miei fratelli … alcuni ci hanno messo qualche mese per tornare a parlarmi; qualcuno qualche anno. È stato un po’ duro, però ora hanno accettato la mia scelta perché ci vogliamo bene.

 

È stato difficile per te prendere questa decisione?

Ma no, perché don Massimo Pirovano è stato come un secondo padre, che mi ha aiutato nella crescita spirituale e anche la comunità di Crenna è stata come una famiglia: mi ha sempre sostenuto e accompagnato. Ciò che mi ha stupito e trasformato il cuore riguarda la mia famiglia: mio papà, ad esempio, ora viene a Messa nelle occasioni importanti, come quella del mio ingresso qui in Parrocchia: è un dono enorme. Lui ha una libertà di cuore che in passato lo portava a dirmi: “Siccome tu insegui le nuvole, io non ti capisco; però sono tuo padre per cui ci sarò sempre”. Ed è vero: è stato presente nelle occasioni più importanti e spesso si commuove più di me.

 

Come è stata la vita del Seminario?

Il seminario è stato una scuola di vita grande e riviverei ogni singolo minuto, intellettualmente e spiritualmente: la filosofia e la teologia ti riempiono il cuore, ma è un posto dove gli amici di sempre possono esserci. Ho sempre conservato anche amicizie esterne all’oratorio, “non-oratoriane” e quindi è stata un’impresa difficile lasciarli. All’inizio, allora avevo 23 anni, non è stato facile non uscire il sabato sera, non uscire a bere qualcosa, non andare a ballare, non farne un sacco e una sporta, però nel tempo tutti abbiamo capito che dovevamo muoverci, come ogni giovane è chiamato fare. Così adesso c’è chi è diventato papà e gli ho battezzato il bimbo; chi è sposato; chi invece non-credente ma amico di sempre è sempre stato vicino. E quando ci vediamo è come se fossimo ancora tutti lì insieme. Lo stesso è con gli amici dell’oratorio di Crenna. Tutti quanti noi, ognuno nel momento più opportuno per lui, dovevamo partire e seguire ognuno la propria strada: non siamo più i ragazzi di allora, ma adesso siamo prete, moglie, marito, papà, mamma… siamo ormai sparsi, ma per sempre legati. La mia scelta di entrare in seminario ha scosso qualcuno, lo ha smosso, per cui è stato un passo che ho compiuto e che si è rivelato essere positivo per tutti.

È tutta grazia di Dio: ha intrecciato le storie come piaceva a Lui.

 

Hai incontrato qualche difficoltà nel tuo cammino per diventare prete?

Ci sono state tante difficoltà, ma caratterialmente esplodo di più nella gioia. Ad esempio, oltre alle difficoltà a cui ho accennato prima, c’è stata la perdita di persone care che mi ha messo in discussione tanto: tenere tra le braccia un amico nel momento della morte ha messo tanto in discussione il cuore.

C’è stata poi la difficoltà del cammino in seminario, che è un impegno serio e che a volte ti toglie la pelle di dosso. È giusto così, perché ti deve formare.

Sono molti i passaggi complessi, che chiedono maturità: ad esempio, al terzo anno di teologia, quando ricevi il colletto (il “vestito” da prete) quel cambio è stato per me un vero e proprio scossone della vita. Dovevo anche esteriormente iniziare a prendere sul serio il fatto di essere riconosciuto da tutti per la mia scelta di vita.

E poi andare in alcuni oratori complessi è stato tosto: quando ero in seminario ho vissuto alcune esperienze oratoriane anche un po’ di frontiera, che ti pongono dei dubbi sulla tua fedeltà al Vangelo quando le cose non sono più semplici e scontate. Ma Lui, Gesù c’è sempre stato, soprattutto attraverso i maestri di sempre, come quel prete che mi ha cresciuto in oratorio.

Ho sperimentato la fedeltà di Dio in tanti volti … e allora avanti tutta!

 

 

Cosa significa per te essere prete?

Per me essere prete significa amare il signore perché Lui ci ha amati per primo. È tenere dentro il cuore, nonostante la fragilità immensa dei discepoli, la vita dei ragazzi, delle famiglie, di chi soffre, di chi è ammalato, di chi sogna, di chi mette in gioco la propria vita. Tenere a cuore la vita della gente.

 

Il tuo sogno di felicità?

La mia felicità è essere fedele a Lui: per me è questo. Poi tutto quello che nasce da Lui è incontro, è ogni giorno che puoi vivere: tutto è un mistero da scoprire e apprezzare.

 
Un aspetto positivo del tuo carattere?

Sono positivo, almeno tendenzialmente.

 

Un aspetto negativo?

Sono troppo emotivo.

 

Il tuo piatto preferito?

Ce ne sono troppi, un po’ di più la carne al sangue.

 

La tua bevanda preferita?

Il vino rosso, ma ne basta un bicchiere.

 

Che cosa apprezzi di più nelle persone?

Passione quando ce la mettono nelle cose che fanno, se ci credono, se si fanno coinvolgere.

 

Che cosa apprezzi di meno nelle persone?

… non saprei… perché anche le povertà bisogna amarle.

 

Un vizio, un’abitudine in cui ogni tanto inciampi?

Mettere in ordine le cose: a modo mio sono ordinato, per cui devo trovare le cose come dico io.

 

Il tuo motto?

Nell’immaginetta ho scritto “mi ami tu più di costoro?”. Questa è la voce che sento dentro il cuore, ma il mio motto ossessivo, alla fine di ogni messaggio (non è mio, ma l’ho ricevuto dal mio prete e lo porto avanti) è

Viva Gesù.

 

Cosa vorresti aggiungere a questa intervista?

Di essere pazienti con me, perché a volte sono un pasticcione 🙂